Tre anni di maternità pagata: un pericoloso “boomerang” per l'occupazione femminile

La crescita economica e sociale del paese passa attraverso l’educazione delle nuove generazioni e la trasmissione di una cultura attenta ai bisogni e alle esigenze di ogni cittadino. Basandosi su questi presupposti la Comunità Papa Giovanni XXIII ha lanciato una proposta che potrebbe essere definita “puericentrica” poiché mira a garantire un sostegno economico per le madri che, per tre anni, scelgono di restare a casa tenendo il proprio figlio lontano dallo stress del mondo del lavoro. “Aiutiamo le mamme a restare a casa dando loro 800 euro al mese invece che gli 80 proposti dal governo Renzi”. Il focus della questione ruota attorno diversi aspetti che riguardano la figura genitoriale, la copertura finanziaria e l’effettivo beneficio che la donna – e la famiglia in generale - potrebbe trarre da questa iniziativa. La base sulla quale è stato costruito il progetto ruota attorno all’importanza della figura genitoriale (riferendosi principalmente alla madre senza, però, escludere la possibilità che a restare a casa sia il padre) nel periodo prescolare del minore. Un problema presumibilmente sottovalutato è quello di trovare i fondi in un Paese che fa fatica a pagare le pensioni o aumentare le risorse erogate alle Regioni e agli enti locali. Un obiettivo quasi impossibile da raggiungere se si considera che l’incentivo dovrebbe rimanere costante nel tempo ed estendibile per tutti i figli nati. Un altro aspetto molto complesso da chiarire è legato all’educazione. Non è così semplice capire quale sia il modo giusto per educare un bambino e il tema, molto dibattuto,è complicato da diverse variabili e opinioni scientifiche contrastanti: inserire il bambino in un contesto accogliente nel quale socializzare e creare un rapporto con gli altri individui (investendo sugli asili nido) o, invece, accudirlo a casa al riparo dallo stress degli orari di lavoro preordinati, dalle malattie contagiose o dalla possibilità di avere le braccia materne ogni qual volta il piccolo lo chieda. Lo sguardo al minore, seppur di fondamentale importanza, non può essere l’unico punto di vista che deve essere considerato. Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, sottolinea che l’intento è quello di aiutare le madri poiché “sono disoccupate o hanno deciso di dedicarsi ai figli”. L’inserimento della madre nel mondo del lavoro e la conciliazione della vita familiare e professionale sono degli argomenti che lo Stato italiano ha affrontato diverse volte con le leggi a sostegno del congedo familiare e con la possibilità per le libere professioniste e le imprenditrici di trovare un sostituto durante il periodo di maternità. L’Italia è ancora molto lontana dagli standard che hanno fissato gli paesi europei e, dall’assenza di posti adeguati per gli asili nido – o di costi accessibili a tutti per il settore privato – all’applicazione di forme di flessibilità oraria, ancora molto deve essere messo in atto. La vera rivoluzione culturale, quella che consentirebbe di migliorare il mondo del lavoro in Italia, deve passare innanzi tutto dagli imprenditori che devono rivalutare la figura femminile come elemento arricchente per l’azienda e non castrante per la possibilità di prendersi cura della prole. Gli studi di organizzazione aziendale ormai sono concordi nell’affermare che un dipendente soddisfatto produce di più e meglio e, se si considera l’85% delle imprese italiane sono piccole o micro aziende, spesso a gestione familiare, le attenzioni mostrate al singolo dipendente marcano una differenza notevole. In questo contesto, però, togliere una figura per ben tre anni porterebbe alla creazione di un nuovo ambiente di lavoro dove la risorsa umana in sostituzione alla madre in congedo, diventerebbe parte integrante dell’azienda che, dato il lungo arco di tempo, investirebbe sulla nuova figura. Al rientro la madre (il cui periodo potrebbe essere superiore ai tre anni qualora la madre decidesse di avere altri figli) vivrebbe con grande disagio il gap per un’assenza così lunga e obbligherebbe l’imprenditore – qualora non se lo potesse permettere – a dover mandare a casa il sostituto che negli anni precedenti ha contribuito al successo aziendale. La donna, dopo la rivoluzione femminile, si è trovata davanti a una scelta: restare a vivere come coloro che le ha precedute, restare a casa e prendersi cura della propria prole a “tempo pieno” o entrare nel mondo del lavoro per affermarsi come professionista. Entrambe le condizioni sono possibili da attuare ma non senza sacrifici: realizzarsi nel mondo del lavoro vuol dire togliere un po’ di tempo ai figli che, però, non per questo devono percepire il senso di abbandono. Di contro se la scelta di restare a casa non è dettata da un relae desiderio ma da un’esigenze economica o gestionale, non appena i figli diventeranno autonomi la madre potrebbe avvertire un vuoto non facilmente colmabile. Una donna che ha successo nella vita è quella che è soddisfatta delle proprie scelte di vita a prescindere che si sia realizzata tra le mura domestiche o nel mondo del lavoro. La proposta – qualora trovasse i fondi per essere finanziata - , invece, riporterebbe indietro la donna di decenni e obbligandola a restare a casa perché, in questo modo, guadagnerebbe di più. Le leggi che regolano il mercato del lavoro, però, sono spietate e molto rigide e l’allettante proposta diventerebbe un pericoloso boomerang : al termine di una o più maternità quale datore di lavoro sceglierebbe di assumere una donna senza esperienza se può scegliere tra altri candidati più giovani o senza “buchi” nel curriculum? Quali alternative si potrebbero presentare? Promuovere l’occupazione femminile e incentivare politiche familiari non passano attraverso l’abbagliante proposta di rimborso economico perché quella diventerebbe solo un falso miraggio al quale appigliarsi. Rimettersi in gioco dopo così tanto tempo rischia di portare un deserto nel vaglio delle opportunità e la frustrazione di non poter vivere una vita al di là del ruolo genitoriale. Il Governo Renzi ancora molto deve creare per garantire alle famiglie delle politiche che possano realmente sostenere i nuclei familiari e il bonus bebé, offerto in sostituzione dei 5 mesi di astensione, è la chiara dimostrazione che non si comprende il peso fisico e psicologico vissuto da una puerpera e la fatica di doversi abituare ai ritmi di un neonato. La soluzione offerta dall’associazione, però, è diametralmente opposta e ugualmente lesiva. Sarebbe più proficuo, invece, avvicinarsi al modello europeo nel quale le madri – e le famiglie in generale – sono supportate da un sistema incentivante che aiuta il rientro nel mondo del lavoro con strutture educative qualificate e vicine ai luoghi di lavoro dei genitori. Tra le proposte che potrebbero essere valutate si citano politiche fiscali mirate al part time con priorità alle madri, l’estensione delle ore “per l’ allattamento” anche oltre il primo anno di vita, l’effettiva applicabilità della richiesta di congedo da parte del padre anche nel settore privato delle Pmi e, ultimo ma non per importanza, la riduzione dei costi degli asili nido pubblici e privati consentendo di andare anche oltre la soglia del 33% sostenuta dall’Unione Europea a Lisbona. La donna che sceglie di restare a casa a prendersi cura del proprio figlio non deve avvertire l’incombente peso della perdita del “secondo stipendio” da portare a casa ma, al contempo, se sceglie di lavorare non può essere penalizzata né economicamente né moralmente. Il lavoro “nobilita l’uomo” ma, allo stesso modo,non deve “colpevolizzare la donna” facendola sentire una madre sorda alle esigenze dei propri figli.

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